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Dante e Forese, ovvero tra serio e faceto

Virgilio, Dante, Forese e le anime ei golosi. MS Holkham misc. 48, pag. 103 (XIV sec.).

Mai non l’avrei riconosciuto al viso;

ma ne la voce sua mi fu palese

ciò che l’aspetto in sé avea conquiso.

Questa favilla tutta mi raccese

mia conoscenza a la cangiata labbia,

e ravvisai la faccia di Forese.

(Purg. XXIII 43-48)

Forese Donati tra i golosi purgatoriali

Le terzine sopra riportate si riferiscono all’incontro tra Dante e Forese Donati. Ci troviamo nella sesta cornice purgatoriale, tra i golosi. Queste anime sono talmente magre e pallide da risultare sfigurate. Infatti, Dante dichiara che non sarebbe mai riuscito a distinguere le fattezze fisiche del proprio amico, così radicalmente mutato nel volto e nell’aspetto. Soltanto la voce è rimasta uguale, se è vero che il grido di stupore di Forese («qual grazia m’è questa?», v. 42) consente finalmente il riconoscimento da parte del Sommo poeta. Quest’ultimo si mostra assai dispiaciuto per le orribili deformazioni: «la faccia tua, ch’io lagrimai già morta,/mi dà di pianger mo non minor doglia/…veggendola sì torta» (vv. 55-57). Segue la risposta di Forese, il quale spiega che patire la fame e la sete è la giusta punizione assegnata alle anime di quella schiera per non aver saputo resistere, durante la vita terrena, ai piaceri della gola. A questo punto, Dante esprime lo stupore di trovare il proprio amico (morto da poco tempo) in un grado di purgazione così avanzato. La ragione di ciò è individuata nelle preghiere della moglie di Forese, Nella, la quale «con suoi prieghi devoti e con sospiri» (v. 88) ha accelerato il cammino ultraterreno del marito verso la salvezza paradisiaca, cui è destinato. Nella viene ricordata con toni assai dolci ed affettuosi, come si nota dalle espressioni «la Nella mia» (v. 87), oppure «la vedovella mia, che molto amai» (v. 92). Tale caratterizzazione contrasta fortemente col quadro negativo delineato a proposito delle altre donne fiorentine contemporanee, connotate con espressioni assai ingiuriose (v. 101 «sfacciate»; v. 106 «svergognate») che servono a descrivere la loro depravata condotta di vita («l’andar mostrando con le poppe il petto», v. 102). Ma se queste donne, profetizza Forese, sapessero cosa le attende, comincerebbero già ad urlare, perché presto su di loro si abbatterà un terribile castigo. Inframezzato da varie considerazioni e da incontri con altre anime, il colloquio con Forese prosegue nel canto successivo, nel quale l’amico di Dante offre un interessante “affresco familiare”. Infatti, vengono menzionati la sorella Piccarda e il fratello Corso. La prima si trova tra i beati del Paradiso (Purg. XXIV 13-15), mentre il secondo è ancora in vita[1]. Tuttavia, preannuncia ancora una volta Forese, Corso Donati sarà presto trascinato giù all’Inferno, legato alla coda di un cavallo che farà terribile strazio del suo corpo (vv. 82-90).

Le tenzoni giovanili tra Dante e Forese

Il rapporto tra Dante e Forese è attestato negli anni compresi tra il 1290 e il 1300 da una serie di sonetti ingiuriosi che i due amici si scambiarono reciprocamente. Tali componimenti, denominati “tenzoni”, erano caratterizzati da toni fortemente polemici e da ingiuriosi attacchi personali, e spesso contenevano vere e proprie provocazioni. Ma non bisogna dimenticare che si trattava, in definitiva, di «un divertito gioco letterario» (Barbero 2020, 51) pieno di ironia e scevro da una reale intenzione di offendere. Secondo Alfie (2011, 12), non è un caso che questi scambi poetici siano avvenuti nel periodo successivo alla morte di Beatrice: «nell’assenza di Beatrice Dante cadde in un periodo di decadenza morale ed artistica, esemplificata dalla banale derisione di Donati»[2]. Dopo il 1290, insomma, Dante dovette vivere un periodo di traviamento, i cui aspetti principali consistevano nella sopravvalutazione della filosofia a scapito della teologia (come testimonia la stesura del Convivio) e nel tradimento della memoria di Beatrice (come testimoniano le cosiddette “rime petrose”, dedicate ad una donna sensuale e crudele, indifferente alle attenzioni di Dante). Stilisticamente, questo periodo di produzione letteraria dantesca è caratterizzato da quel linguaggio basso che ritornerà a più riprese nelle opere della maturità, e specialmente nell’Inferno.

Nella prima delle sei tenzoni tra Dante e Forese (sono, in totale, tre per parte), Dante rimprovera all’amico di mantenere la moglie in uno stato di povertà economica. Nella che soffre il freddo anche nei più caldi mesi estivi è chiaramente un’allusione alle scarse attenzioni del marito. La risposta di Forese non si fa attendere, e mira a colpire la poco nobile attività creditizia esercitata dagli Alighieri: Donati si imbatte nel fantasma del padre di Dante legato al nodo di qualche debito. Nel terzo sonetto, Dante accusa Forese di essere goloso e preannuncia l’imminente punizione di tale peccato (del resto, egli verrà collocato proprio tra i golosi del Purgatorio). Il Donati ribatte che nessuno può competere con la famiglia di Dante quanto a povertà: il poeta stesso, prima o poi, finirà chiuso in qualche ospizio! Gli ultimi due sonetti sono i più noti: Dante accusa Forese di essere un figlio illegittimo, un goloso e un ladro che non fa altro che rubare per procurarsi il cibo. Infine, nell’ultima tenzone, Forese, dopo aver alluso ad un affare speculativo di Alighiero finito male, accusa Dante di codardia per non aver compiuto adeguata vendetta[3].

[1] Piccarda si trova nel cielo della Luna, dove sono ospitate le anime che in vita non sono riuscite ad adempiere ai voti. Infatti, la sorella di Forese, assai pia e religiosa, era entrata in convento per farsi monaca, ma era stata improvvisamente rapita dal fratello Corso per esser data in sposa in nome di momentanee convenienze politiche. Invece, Corso Donati era il principale esponente dei Guelfi Neri. La sua partecipazione agli scontri politici di Firenze di inizio Trecento connota questo personaggio come un uomo particolarmente violento. Del resto, Giovanni Villani (Cronica IX 39) chiama la famiglia Donati col poco rassicurante epiteto “Malefami” (che può voler dire o ‘uomini dalla cattiva fama’ o ‘fammi male’).

[2] F. Alfie, Dante’s Tenzone with Forese Donati. The reprehension of Vice, Toronto, University of Toronto Press. La traduzione della citazione è di M. Verdicchio, Tenzone e ironia in Dante, «Tenzone» XVI (2015) 11-29.

[3] Barbero (2020, 53) ipotizza che «Dante, morto il padre ed ereditata la lite, avrebbe avuto troppa fretta di mettersi d’accordo con la controparte». L’esiguo interesse di Dante nel vendicare i parenti offesi risalta anche dall’episodio di Geri del Bello, che nell’Inferno (XXIX 18-36) insulta Dante per non aver fatto giustizia del proprio omicidio.

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