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Dante e il volgare

Fig. 1: Dante e Virgilio di fronte a Pluto. Miniatura XIV sec. (in Egerton MS 943, British Library).

Pape Satàn, pape Satàn aleppe!»,

cominciò Pluto con la voce chioccia;

e quel savio gentil, che tutto seppe,

disse per confortarmi: «Non ti noccia

la tua paura; ché, poder ch’elli abbia,

non ci torrà lo scender questa roccia».

(Inf. VII 1-6)

Pluto: le parole (in)comprensibili

L’endecasillabo con cui si apre il canto settimo dell’Inferno contiene una celebre espressione pronunciata da Pluto, dio greco della ricchezza qui posto a guardia del cerchio quarto (avari e prodighi). L’interpretazione del primo verso ha diviso intere generazioni di dantisti. Al giorno d’oggi, si tende ad escludere che si tratti di un mero gioco linguistico senza alcun significato. Infatti, le parole di Pluto sono ben comprese da Virgilio (il «savio gentil, che tutto seppe» cui fa riferimento il v. 3) ed appaiono formate da elementi singolarmente riconoscibili. Innanzitutto, pape, termine che deriva dal latino papae (cf. gr. παπαί) e che costituisce un’interiezione di stupore o stizza, più o meno corrispondente agli attuali “oh”, “ahimè”. Satàn si riferisce a Lucifero, il re dell’Inferno (si noti il troncamento, comune all’epoca di Dante per i nomi propri stranieri indeclinabili in latino). Infine, aleppe significa “primo” e richiama la lettera iniziale dell’alfabeto ebraico (aleph, da cui il greco alpha)[1]. Il verso, dunque, è traducibile come “Oh Satana, Oh Satana re!”. Pluto, stupito alla vista dei due pellegrini, invoca Lucifero con un’affermazione blasfema. Tuttavia, secondo Vallone (1960, 228)[2], in realtà il v. 1 «non è un’invocazione, non è un’esclamazione, non è solo una bestemmia, è più propriamente un atto di fede, un tributo di omaggio, che Virgilio tronca, con atto di sdegno e di imperio. In sostanza egli ha detto che Satana è, sì, il Dio, cioè il primo, il principe di quel mondo; ma non ha fatto in tempo a dirci ch’è anche l’ultimo, la meta, l’assoluto a cui tutti gli inferni dei ed anime tendono: e cioè l’aleppe, l’alfa (e lo ha detto), ma anche l’omega (e non ha fatto in tempo a dirlo». Pluto, dunque, sta rivolgendo un’accorata lode al re dei luoghi infernali, lode iniziata ma non conclusa (cf. v. 2). Infatti, la blasfemia viene subito interrotta da Virgilio, che con tono duro e perentorio ordina: «Taci, maladetto lupo!/consuma dentro te con la tua rabbia./Non è sanza cagion l’andare al cupo:/vuolsi ne l’alto» (vv. 8-11)[3]. Insomma, il viaggio dei due pellegrini è voluto dall’alto, e pertanto non può essere ostacolato da nessuno.

Fig.2: Una rivisitazione moderna del canto VII dell’Inferno di Topolino (1949 – 1950) Topolino veste i panni di Dante e Pippo quelli di Virgilio. Durante la loro discesa infernale, i due incontrarono Pluto, che qui è il simpatico cagnolino dei cartoni Disney. Da notare l’ironia sul carattere enigmatico delle parole del custode infernale.

Dante e il volgare

Nel 2016, Umberto Eco ha utilizzato Pape Satàn Aleppe come titolo di una raccolta di articoli. L’espressione dantesca, che in questo libro serviva a designare la confusione del mondo contemporaneo[4], può richiamare alla memoria il disordine linguistico, a causa dell’accostamento di terminologia greca, latina, ebraica. Un simile linguaggio si ritrova in certi personaggi dell’Eco romanziere, come ad esempio Salvatore (che, ne Il nome della rosa, parla un misto tra latino e volgare) oppure Baudolino che, nell’omonimo romanzo, racconta il proprio incontro con Federico Barbarossa mediante un dettato accostabile ai primi tentativi di produzione scritta in volgare.

Ma quale lingua si parlava all’epoca di Dante? Per rispondere a questa domanda, è bene studiare il De vulgari eloquentia, opera in latino dedicata alla questione linguistica. Come nota Barbero (2020, 85), Dante era convinto che il latino fosse «una lingua inventata, la sola che a differenza delle lingue parlate non cambiava mai, e che permetteva di comunicare al di là dei confini nazionali – una grandiosa invenzione umana per rimediare, in parte, al disastro della confusione dei linguaggi provocato dalla torre di Babele». Opposta al latino era la realtà viva dei volgari d’uso quotidiano, che risultavano da un latino corrotto e imbastardito da secoli di contatto con le lingue locali di sostrato. Nel De vulgari, Dante, dopo aver definito l’insieme delle parlate italiche con l’espressione “lingua del sì”, le studia tutte in modo preciso e rigoroso. Ad esempio, vengono passati in rassegna il volgare romano e gli idiomi toscani ed emiliano-romagnoli. Dante analizza addirittura le differenze interne alla parlata bolognese, per la quale distingue la variante di San Felice da quella di Strada Maggiore (rispettivamente, la zona periferica e quella centrale della città in epoca medievale). L’analisi si conclude con un appassionato elogio (I xv 2: «dico dunque che forse non pensano male coloro che affermano parlare i bolognesi la più bella parlata»), probabilmente dovuto all’esigenza di rendere omaggio al Guinizzelli. Perché Dante illustrò i volgari italici? Il suo scopo era scovare il volgare illustre, ovvero quello adatto all’uso letterario. Tuttavia, secondo Dante, nessuna parlata era degna di essere considerata “illustre”, neppure il toscano che egli stesso parlava, fatto oggetto di avvelenati strali. Qual è, dunque, la proposta del Sommo poeta? Definire il volgare nei suoi caratteri ideali, quali si ritrovano nell’uso dei principali scrittori. Esso deve essere illustre (perché deve dar lustro a chi lo adopera), cardinale (perché deve costituire il cardine attorno al quale ruotano gli altri volgari), regale (perché degno di essere usato in una reggia, se solo quest’ultima esistesse in Italia), curiale (perché risponde alle esigenze degli uomini più prestigiosi, che formano una corte ideale in mancanza di una corte reale).

[1] La deformazione fonetica di aleph in aleppe sarebbe analoga a quella subita dal nome proprio Yoseph, in italiano trasformatosi in Giuseppe.

[2] A. Vallone, Canto VII, «Scaligera» I (1960) 223-244.

[3] Si noti l’espressione finale, che riecheggia il proverbiale ammonimento «vuolsi così colà dove si puote/ciò che si vuole, e più non dimandare (Inf. III 95s.; V 25s.). Da notare la caratterizzazione dantesca di Pluto: il demone, cieco nella mitologia classica per la casualità con cui elargiva la ricchezza ai mortali, viene qui chiamato «lupo» perché tale animale, nell’ottica della Commedia, simboleggia l’avarizia.

[4] Come ha scritto Eco nella prefazione di Pape Satàn Aleppe (2016), «queste parole confondono le idee, e possono prestarsi a qualunque diavoleria. Mi è parso pertanto comodo usarle come titolo di questa raccolta che, non tanto per colpa mia quanto per colpa dei tempi, è sconnessa, […] e riflette la natura liquida» della società odierna. Con le parole di Pluto, il celebre studioso si richiama alle molteplici sfaccettature del mondo contemporaneo (politica, tecnologia, celebrità, educazione…).

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