Sebbene le opere dei secoli XII-XIV fossero travolte dal giudizio negativo degli umanisti, i quali, con fermezza, ne prendevano le distanze, la polvere di antiche biblioteche e la fama dei loro bibliotecari hanno restituito autori, spesso sconosciuti, sulle orme delle auctoritates classiche[1] e, in particolare, dei poeti i quali dominarono il panorama culturale dei secoli successivi. Il genere letterario che maggiormente imitò la lingua e la forma degli antenati, fu la poesia epica la quale giunse in Italia quando comparvero sulla scena le repubbliche comunali. Ognuna di esse, dalle Signorie, ai Principati ai Comuni, gareggiava per sottrarre spazio all’Impero, bisognosa di legittimare la propria storia e la propria cultura. Con ordinamenti e statuti definirono politicamente il territorio, strinsero alleanze e costruirono imponenti mura, ma necessitarono anche di aedi che le narrassero. Sebbene le cronache assolvessero alla funzione di memoria per le città, risultarono poco adeguate a costruire una ideologia. Le nuove forme politiche reclamavano un genere universale, che raccontasse per filo e per segno, che guardasse a un evento grandioso e lo descrivesse nel suo farsi. I Comuni desideravano entrare nell’olimpo della mitografia, iscrivere i loro uomini nel libro degli eroi, strappare le loro gesta alla contingenza e mutarle in erga di valore e significato universale.
Il fenomeno è osservabile nell’Italia Settentrionale, fra i secoli XIII-XIV, in particolare in area veneto-lombarda. Sono gli anni in cui Giovanni del Virgilio esortava Dante all’epica, Albertino Mussato tesseva in tragedia la materia scaligera e il pisano Ranieri Granchi narrava le guerre della sua città[2]. Sono gli anni in cui si consumò il conflitto tra Venezia e Verona, decretando ufficialmente l’inizio prospero della dominazione della Serenissima sulla Terraferma. I truci eventi che segnarono la Marca Trevigiana sino al 1339 sollecitarono un ignoto autore che, con intento encomiastico, compose il Liber Marchiane Ruine, poema ruspante in 1402 versi. Con l’obiettivo di cantare le disfatte degli eroi, in un latino che poco si appresta ad imitare gli scrittori classici[3], il poeta racconta le vicende della guerra Marchiana i cui protagonisti sono i signori Scaligeri, già una volta consegnati alla lode immortale, quando Dante, in Par. XVII 70-72, scrivendo: «Lo primo tuo refugio, il primo ostello/ sarà la cortesia del gran lombardo/ che ‘n su la scala porta il santo uccello»[4] ringraziava loro dell’ospitalità. Sebbene il contenuto risulti narrativamente accattivante, sono gli ultimi versi a concedere fama immortale al versificatore, ove accenna a sé, celandosi dietro una sciarada: «Gente Ligur, patria Ambrosii sum, fertile nomen/ est mihi stirpsque Ceres: mea spica est apocopata». Giacomo Filippo Tommasini, vescovo di Cittanova, nel Petrarcha redivivus, opera del secolo XVII, afferma che il Petrarca donò, nel 1362, alla Signoria veneta alcuni libri della sua biblioteca. Con il supporto dell’abate Fortunato Olmi, rintracciano un elenco che riporta i numeri dei volumi concessi. Fra questi, in ultima posizione, figura il Liber Marchiane Ruine, di cui il Tomasini descrive: «Liber Marchiane ruinae qui continet bella an. 1338, quo Sereniss. Reip. Venetae accessit urbs Tarvisium». Inoltre, ne trascrive i primi quattro e gli ultimi due versi, seguiti dall’affermazione enigmatica. Questa semplice menzione spinse gli studiosi a interrogarsi sull’identità del poeta moderno. Per primo, l’agostiniano Angelico Aprosio lesse e interpretò queste righe sostenendo che l’autore di patria e di origine fosse ligure, Ambrosio di nome. Debitore di tale interpretazione, in seguito Rafaele Soprani, identificò il versificatore con il nome di Ambrosio Granello, ritenendo che spica apocopata significasse picciola spica, dunque Spighetto, e dunque Granello. In seguito, Agostino Oldoini accoglie le lezioni dei predecessori, mentre Giambattista Spotorno nomina un certo Ambrosio Spighetto. Secondo indagini d’archivio, però, non risulta alcuna famiglia Spighetto né in Lombardia né in Liguria. Giovanni Veludo leggendo stirpisque ceres mea spica est apocopata, intende il grano che, granata la spiga, è ridotto in granelli, e dunque i Granelli, famiglia genovese di lunga memoria. Propone inoltre Ubertus o Ubertino per nome, piuttosto che Ambrosio[5]. Qualunque e dovunque sia il vero, è noto che i letterati liguri tendenziosamente ed erratamente interpretano il Gente Ligur di v. 1401, volendosi appropriare dell’autore, ignorando che patria Ambrosii sum significa che lo scrittore era di Milano e non che si chiamasse Ambrogio. Solo una delle note corredate al testo permette di avvicinarci – o quantomeno ipotizzare – una possibile locazione dell’autore, quando parlando delle Alpes germanice al v. 30, scrive: «Legitur in ystoria lombarda, que in archivo Sancti Iohannis Modoecensis servatur…»[6]. Pare dunque che l’autore avesse accesso alla biblioteca capitolare di S. Giovanni a Monza, luogo in cui, con molta probabilità, leggeva un manoscritto della Historia Langobardorum di Paolo Diacono (Historia Langobardorum, I, 1) – qui chiamata Historia lombarda – ivi conservato, ad inizio Trecento. Marco Petoletti, ha proposto il nome di un frequentatore trecentesco della biblioteca monzese: il maestro Ubertus Mediolanensis[7]. La questione rimane tutt’ora irrisolta e non priva di numerosi interrogativi, le cui risposte forse premetterebbero una maggiore comprensione dell’opera.
Attualmente, il testo è stato rinvenuto in tre manoscritti medievali, cui si sommano due copie moderne di codici conservati[8].
[1] L.D. Reynolds e N.G. Wilson condensano in poche pagine le storie dei ritrovamenti di alcuni tra i manoscritti fondamentali per la tradizione dei classici, verificatisi tra i secoli XI-XIV (L.D. Reynolds – N.G. Wilson, Copisti e filologi. La tradizione dei classici dall’antichità ai tempi moderni, Antenore, Roma-Padova, 2016, pp. 73-154).
[2] Per un panorama completo: M. Petoletti, Scrivere la storia in poesia nella prima metà del Trecento: il caso Venezia, in La storia e la sua scrittura: dalla prassi alla regola, dalla formalizzazione alla professionalizzazione (secc. XII-XVI in.). Atti del Convegno, Roma, Ecole française de Rome-Istituto Storico Italiano per il Medioevo, 16-18 settembre 2019, a cura di F. Delle Donne – M. Zabbia, Roma 2020, in corso di stampa.
[3] C. Cantù, Liber Marchiane Ruine, «Miscellanea di storia italiana», 5 (1868), pp. 3-71 e 1175-1176.
[4] D. Alighieri, La Divina Commedia, Paradiso, a cura di U. Bosco e G. Reggio, Firenze, Le Monnier, 2010 [2002], pp. 312-321.
[5] G. Veludo, Sull’autore del poema intitolato Marchiana ruina, «Atti del R. Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti», 13/3 (1867-1868), pp. 869-876.
[6] Ivi, p. 19
[7] M. Petoletti, Scrivere la storia, in corso di stampa. Qui sono ricordati due manoscritti maneggiati da questo maestro: Monza, Biblioteca Capitolare, a-4/11 (sec. XII) e a-24/36 (sec. XII ex.), per cui vd. A. Belloni – M. Ferrari, La Biblioteca Capitolare di Monza, Padova 1974 (Medioevo e Umanesimo, 21), 7-8 e 17.
[8] Belluno, Biblioteca Capitolare Lolliniana, 44, sec. XIV (= B); Sevilla, Biblioteca Capitular y Columbina, 5-5-18, sec. XIV (= S); Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, Lat. XII 173 (3954), sec. XIV (= V); Padova, Biblioteca Civica, B.P. 514/IV, sec. XVIII (1715-1800); Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, Lat. X 3 (3520), sec. XVIII.