Ch’io vidi lui a piè del ponticello
mostrarti, e minacciar forte, col dito,
e udi’ ’l nominar Geri del Bello.
(Inf. XXIX 25-27)
Geri del Bello e i gestacci contro Dante
Dante e Virgilio sono giunti al confine terminale della nona bolgia, in cui sono puniti i seminatori «di scandalo e di scisma» (Inf. XXVIII 35), ovvero personaggi che in vita hanno creato divisioni in campo religioso e politico e che nell’inferno sono tagliati a pezzi da un diavolo armato di spada, contrappasso orribile e macabro (cf. vv. 34-42). La visione di queste anime costituisce un esempio eloquente dello stile umile dantesco: un dannato appare «rotto dal mento infin dove si trulla» (v. 24), ovvero spaccato dal mento fino all’ano (lett. ‘dove si scorreggia’). Tra le gambe pendono le interiora, e risulta ben visibile lo stomaco, definito come il «tristo sacco/che merda fa di quel che si trangugia» (vv. 26s.). Le ferite si richiudono fino a quando i dannati non tornano davanti al diavolo, pronto a squartarli nuovamente. Dante rimane profondamente colpito da cotanto orrore, a tal punto che i suoi occhi vorrebbero piangere (cf. Inf. XXIX 1-3). Tale commozione viene rimproverata da Virgilio, che invita ad un rapido prosieguo del viaggio ultramondano. Ma gli indugi di Dante non sono immotivati: egli, infatti, sospetta che tra i seminatori di discordia ci sia un proprio consanguineo (vv. 18-21). Virgilio conferma e racconta di aver scorto un dannato che indicava e minacciava Dante con il dito mentre quest’ultimo era distratto. Il poeta latino ne aveva udito persino il nome: Geri del Bello. Secondo alcuni studiosi, quel «minacciar forte» del v. 26 si riferisce al volgare gesto delle fiche, un gesto di insulto che indica dominio e sopraffazione e che consiste nel chiudere la mano a pugno, inserendo il pollice tra indice e medio. Ma Geri non è un maleducato che si diverte a far gestacci all’indirizzo di chiunque gli capiti sotto gli occhi. Dante sa bene di esser da lui disprezzato e spiega le legittime ragioni di tale ostilità: la morte violenta di Geri non è stata ancora vendicata da nessuno. Dante si mostra sinceramente impietosito per la sorte di quel dannato. Nelle sue parole si coglie la difesa di un sistema valoriale in netto contrasto con quello di Virgilio.
L’esilio e il ritorno di Geri a Firenze
Geri apparteneva alla casata degli Alighieri (era figlio del fratello del nonno di Dante). Da un regesto seicentesco (CDD, n. 33) emerge che nel 1266 si trovava a Bologna, dove esercitava l’attività usuraia. Tuttavia, era certamente nato a Firenze: lo stesso documento, infatti, lo cita come «Zerio di Bello Aleghieri di Fiorenze» (con veste fonica ‘bolognesizzata’). Perché, allora, in quel periodo era lontano dalla città natia? Perché a Firenze nel 1260 erano tornati al potere i ghibellini, e Geri, schierato con la parte guelfa, aveva dovuto prendere la via dell’esilio per rifugiarsi nella città che ospitava i fuoriusciti. Ma non tutti gli Alighieri vennero scacciati: Bellincione (nonno di Dante), forse perché estraneo alla lotta politica, poté continuare a vivere tranquillamente a Firenze assieme ai propri figli (del resto, in quegli anni a Firenze nacque Dante, probabilmente proprio nella casa di Bellincione). L’esilio di Geri è confermato anche da un documento fiorentino (CDD, n. 35) contenente l’elenco dei danneggiati a causa della militanza guelfa. Una volta rientrato a Firenze, a Geri vennero riconosciute 25 lire di danni per la sua casa nel sesto di Porta San Piero, nei pressi della parrocchia di San Martino del Vescovo. Era la zona in cui storicamente sorgevano le proprietà degli Alighieri. Infatti, tra i confinanti viene citato anche Bellincione, il quale, però, non fu risarcito in quanto la sua casa non subì alcun danno (ciò che fa ritenere che sia rimasto a Firenze anche durante il periodo del governo ghibellino).
Nobiltà e violenza
Si può immaginare Geri come un uomo violento e rissoso: nel Novembre 1280 fu imputato e condannato in un processo per atti di violenza compiuti a Prato, sulla strada pubblica che conduceva a Pistoia. Venne bandito da Prato finché non avesse pagato una multa di 300 lire. Questo episodio, strano a dirsi, non minò in alcun modo la reputazione di Geri, che anzi continuò a vivere normalmente e a godere di un elevato status sociale. Infatti, a quel tempo non era infrequente che persone nobili e rispettabili fossero coinvolte in fatti di sangue. La violenza, insomma, era un fattore assai caratteristico dell’ambiente sociale in cui crebbe Dante. Una vita del genere, così avventurosa e rischiosa, poteva comportare alcuni imprevisti, tra cui la morte. Geri fu assassinato nel 1287, e nel 1300 nessuno lo aveva ancora vendicato. Nel dar ragione al risentimento del cugino, Dante si mostra uomo pienamente medievale: il poeta sa bene che gli Alighieri sono tenuti ad esercitare la vendetta, e quasi auspica che qualcuno in famiglia si decida a lavare l’onta dell’offesa invendicata. L’istituto della vendetta privata era rimasto nei Comuni come eredità della società feudale. Secondo la mentalità medievale, infatti, la vendetta costituiva un atto di giustizia, e per i nobili vendicare le offese era necessario per salvaguardare l’onore. Pertanto, prima ancora che un diritto, la vendetta era un dovere, consentito dalla legislazione a patto che l’atto vendicatore fosse proporzionato all’offesa subita. Da chi era stato ucciso Geri? Secondo Pietro Alighieri (figlio di Dante), il colpevole era tale Brodario della nobile famiglia dei Sacchetti. Il motivo di tale gesto è ignoto: il Barbi ha ipotizzato che Geri avesse seminato odii e discordie tra i Sacchetti, ma questa interpretazione, se pur plausibile, appare piuttosto autoschediastica. Ad ogni modo, l’offesa sarebbe stata infine vendicata dai nipoti di Geri, ciò che innescò tra le due famiglie una vera e propria faida che si sarebbe conclusa solo con un formale patto di pace nel 1342.