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La panchina

Rossella era seduta su una panchina, nei pressi di Piazza della Libertà a Firenze. Viveva nella città medicea, ma aveva origini piemontesi, si era trasferita in Toscana molti anni prima, per motivi indipendenti dalla sua volontà. Il padre lavorava per una multinazionale italo – belga, gli cambiarono sede, dandogli una settimana di tempo per fare armi e bagagli ed andare via da Torino. I primi tempi furono durissimi, lei non si ambientava, la sua natura era ribelle, amava poco le regole, considerava l’antica Capitale italiana troppo provinciale per i gusti personali, oltre ad essere noiosa. Inoltre…(si fa per dire), aveva perso gli amici di scuola. All’inizio riuscì a mantenere i contatti, con il trascorrere dei mesi le comunicazioni, diventarono rade, ed entro un paio d’anni i loro nomi sparirono dalla rubrica telefonica. Erano gli anni novanta, gli amati cellulari appartenevano alla “fantascienza”. Lei non voleva adattarsi, la situazione precaria peggiorò, nel momento in cui ebbe uno spiacevole litigio con l’insegnante di inglese, alla fine le tirò un calcio alle caviglie. La donna si adirò moltissimo, nacque una “tragedia greca”, mentre i compagni enfatizzarono quel brutto momento, raccontarono al Preside alcune falsità nei confronti di Rossella. L’uomo credette a ogni singola parola, soprattutto dopo aver letto il terribile curriculum scolastico della ragazza. Lei fu espulsa, abbandonò la scuola, ma ne fu felice poiché odiava l’Istituto. Per rimanere in pace il padre l’iscrisse ad una scuola privata, gestita dalle Suore. Roxy si diplomò con il massimo dei voti, ma non solo! infatti quando s’iscrisse all’università, procedette lungo il percorso di studi, come fosse stata un rullo compressore, infine conseguì la laurea in marketing con indirizzo internazionale, nei tempi previsti nel mese di giugno, a settembre partì alla volta di Londra. Restò a vivere nella Capitale inglese per cinque anni, non avrebbe voluto abbandonare l’Inghilterra, ma la morte prematura della madre, fu un trauma, ritornò sui passi iniziali e andò a lavorare nella stessa Multinazionale italo – belga. Nel giro di tre anni diventò un alto dirigente, ed assieme alla carica, guadagnò denaro e contemporaneamente enfatizzò alcuni lati caratteriali. Diventò cinica, antipatica, non voleva affezionarsi a nessuno e trattava i sottoposti con un educato distacco. I reparti gestiti da lei, funzionavano a meraviglia, la produzione aumentava anno dopo anno, riusciva a “mandare” in ferie gli operai e gli impiegati, senza creare il minimo problema. Era considerata una “macchina da guerra”, ed i cinque soci principali provavano rispetto per l’adolescente ex – ribelle. Ogni sera tornava a casa, viveva in un lussuoso appartamento in centro a Firenze, mangiava poco (perché, odiava cucinare), dopo essersi accomodata in salotto oppure a letto, avvolta dalle coperte, leggeva un buon libro ed entro due ore si addormentava. Gli amici erano utopia, lo stesso valeva per l’amore, a causa del “trauma” subito durante l’adolescenza, lungi da lei voler stringere legami sentimentali con un uomo. Le uscite pubbliche erano assieme ad un gigolo in voga in Italia. In verità temeva l’amore, ma soprattutto pensava che sarebbe stata mollata subito dall’ipotetico fidanzato, per colpa della sua personalità. Era stata anche corteggiata parecchie volte, però in qualche modo aveva “scoraggiato” i poveri corteggiatori, trattandoli male, ed in azienda l’avevano affibbiato un “simpatico” appellativo…Brunilde la valchiria piemontese. Non si arrabbiava mai, prendeva con spirito il nomignolo, non era riuscita a detestarlo, in fondo si trattava della verità. Un giorno si sentì sola, entrò in uno stato critico, cominciò a piangere a dirotto, sembrava essere tornata una bambina piccola, e per almeno trenta minuti regredì all’infanzia. Telefonò al padre (tra loro due i rapporti erano pessimi), purtroppo l’uomo la trattò in malo modo e le chiuse la cornetta in faccia. Risolse il problema nella giornata seguente, recandosi al canile, rimise piede nell’appartamento assieme ad un cucciolo di quasi un anno. Era un batuffolo peloso e bianco, ma con le zampette nere. Per lui provò amore a prima vista, diventò il suo migliore amico, anche se di piccola taglia, non rimaneva sempre in casa, imparò ad apprezzare le camminate, tutti i giorni lo portava a spasso, faceva una breve sosta proprio in Piazza della Libertà. Si sedeva sulla panchina, mangiava uno snack salato, mentre Asterix (il cane), stava sdraiato per terra. L’animale le addolcì il carattere, al lavoro stentarono di riconoscerla, in alcune occasioni riusciva a sorridere. La situazione cambiò completamente una bella mattina di fine estate. In quell’occasione era sempre seduta, con le gambe leggermente accavallate, teneva lo sguardo perso nel vuoto, ed improvvisamente pianse, nello stesso tempo sentì il contatto di una mano sconosciuta. Si voltò verso destra, ed incrociò degli occhi maschili, lui l’avvolse con il suo sguardo ceruleo, l’abbracciò intensamente ed infine la baciò con passione. Da quel giorno vissero in tre, quando si recava al lavoro, nella Multinazionale, apriva la porta dell’ufficio, stringeva la penna tra le dita, tamburellandola sopra alla scrivania, senza rendersene conto, “entrava” in una seconda dimensione per qualche minuto, ed infine ripeteva a voce alta: …E pensare che è nato tutto in quell’anonimo canile… (poi, incominciava con la solita quotidianità, con il sorriso stampato sulle labbra).

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